#Accatania chi facemu pi Pasquetta?

Sta per arrivare la festa più importante della Cristianità, quella che dà significato a tutta l’epopea narrata dai Vangeli e che trae origine dagli antichi culti pagani che celebravano la rinascita della natura a primavera. Ma #accatania a dire il vero ce ne importa poco, noi non aspettiamo questo periodo per intraprendere un cammino di fede e di penitenza, non per digiunare il Venerdì Santo né per la veglia di mezzanotte…a nuatri n’interessa a Pasquetta!

Sono tre, infatti, le domande esistenziali su cui il catanese si arrovella durante tutto l’arco dell’anno: unni jemu a Ferragosto, cu cu semu a Capodanno, ma soprattutto…chi facemu pi Paquetta?

Nonostante le affinità con le vicine ricorrenze del 25 aprile e del 1 maggio, in cui si fanno analoghe gite fuoriporta, per il lunedì di Pasqua c’è un vincolo fondamentale e invalicabile che lo rende unico: s’ha ghiri in campagna! Nelle altre giornate si può scegliere anche il mare, la montagna o la visita di un borgo antico, ma a Pasquetta, cascasse il mondo, che piova o ci sia il sole, amu a fari arrusti e mangia all’aria aperta.

Il primo problema da risolvere è trovare la location adatta. Normalmente ci sono diverse alternative, ma poi si va sempre a parare nello stesso posto: a casuzza do nannu di Kevinni agghiri Belpasso o Ragalna, che ovviamente tutti gli altri 364 giorni dell’anno rimane rigorosamente chiusa. Ogni fulinia pari na riti di trapezisti, ma basta n’arrunzata veloce veloce per renderla confortevole…l’importante è volerlo e soprattutto convincersene.

Nei due giorni precedenti, il gruppo uozzapp creato all’uopo e chiamato “Pasquetta ni Kevinni” scoppia di messaggi. Ci sono dentro membri trovati nel più remoto angolo della rubrica dell’organizzatore seriale della comitiva, i quali però, non sapendo perché si trovano lì, fanno subito a gara per abbandonare. Alla fine rimangono gli irriducibili, gli amici di sempre, che iniziano a babbiare senza soluzione di continuità, almeno sino a quando l’organizzatore non ripristina l’ordine chiedendo perentoriamente cosa si debba mangiare. Arrivano a raffica le richieste più disparate, dai cacocciuli arrustuti ‘o zuzzu, tramutate ogni volta in una spesa da “provviste per probabile conflitto nucleare”, che però nonostante l’inflazione costa sempre solo dieci euro tondi tondi a testa.

L’arrivo dei più volenterosi è intorno alle 11,30: aperta la casa u pruulazzu ca nesci oscura il cielo per qualche istante, ma si inizia stoicamente a mettere subito un po’ d’ordine. Si conservano le bibite nel frigo che viene riacceso per l’occasione, si lavano le stoviglie con un filo d’acqua ca è cchiù fridda del Cocito di dantesca memoria e si sistemano le sedie fuori «accussì ni godemu ‘n pocu di suli». 

Verso le 12,30 arrivano chiddi ca ficiunu a spisa, cu centocinquanta chili di carne, sasizza, pittinicchi, costate, cipollate e duecento chili di pane, ca «chistu è di casa e si po manciari macari dumani».

Mentre i fimmini accumincianu a cunzari alivi, pummarori sicchi, salumi e fummaggiazzu po pani cunzatu, due eroi – i piromani del gruppo – si dedicano a fari sbambari u focu p’arrustiri. E dopo aver disposto un metro quadro di carbonella supra u fucuni, spruzzato un litro di alcool etilico lasciato lì l’anno prima, ittatu ‘n prospero che dà origine a una supernova, iniziano finalmente a svintuliari: unu cu na palitta e l’autru cu ‘n vassoio di cartuni. I tricipiti scoppiano, il sudore imperla le fronti, i denti si stringono in una smorfia di immensa fatica, ma i piromani non smettono e, soprattutto, non cedono i loro arnesi a chi di volta in volta fa finta di voler dare loro una mano. Dopo un paio di illusorie sbambate, rese vane dallo scienziato di turno che soffoca la nascente fiamma ittannu autra carbonella, alla fine u focu pigghia e si po accuminciari.

Si inizia con la salsiccia, ca ci sta chiù assai. Si srotolano cento metri di caddozzi, conditi e non, e si inizia con le prime discussioni: «u caddozzu s’ha sputtusari ca fucchetta o no?». Il comitato del sì vorrebbe che il grasso defluisse, ma i puristi a sasizza a volunu vastasa. Alla fine si arriva alla soluzione salomonica: cinquanta metri sputtusati e cinquanta intonsi. Cominciano ad essere pronti i primi caddozzi, ca s’anu a mangiari subitu picchì su cauri cauri e che vengono accaparrati dai primi fortunati: normalmente le gentili congiunte dei piromani, che p’accuminciari ci condiscono menzu cucciddatu. 

Si prosegue come se non ci fosse un domani, continuando ad arrostire e a riempire i piatti vuoti. Gli addetti alla grigliata, dei veri e propri eroi, non mangiano sino a quando gli altri non sono satolli. Poi, una frase sancisce l’epilogo del rito: «chista è pi mia ca ancora n’hai mangiatu nenti».

Intanto che ci si riposa un po’, nel fuoco ormai lento si arrostiscono i cacoccioli che saranno pronti a pomeriggio inoltrato. Nonostante il falso disgusto, i commensali si pulizianu macari chiddi, mentre qualcuno tira fuori una quarantina di chili di cioccolata delle uova aperte il giorno prima, ovviamente accompagnati nella degustazione da un paio di chilate di pane, ca ci sapi bellu. 

A quel punto ci si rende conto che manca il caffè, per cui un povero crasto, quello che ha la macchina messa alla fine e che ostruisce il passaggio agli altri, è costretto ad andare in paese per comprarlo nel primo bar aperto, dal quale torna immancabilmente con due bottigliette di succo di frutta riempite con le imbevibili scolature della macchinetta.

Arriva poi il momento, quando le panze pesano più del piombo, in cui lo sportivo della compagnia si alza inesorabilmente con un pallone in mano. Dapprima palleggia da solo, ma poi costringe maleficamente tutti gli altri ad improbabili sessioni di “schiaccia sette”, a causa delle quali si iniziano a contare i primi feriti del dì di festa, tra pallonate ‘nda facci, ita stuccati e teste ca si incucchiuno.

Frattanto, mentre il cielo si colora di venature arancioni, inizia ad alzarsi un venticello friccicarello che fa venire un po’ di pelle d’oca e che costringe i più a indossare giubbottini e felpine. E mentre ci si ferma a sussurrare qualche pettegolezzo in piccoli gruppetti che si formano spontanei, la stanchezza comincia ad affiorare costringendo purtroppo ai saluti finali. 

Così si sale in macchina, ci si lascia la campagna alle spalle e sul sottofondo di una vecchia canzone, Kevinni si gira verso Sciantall e chiede con occhi dolci: «Chi manciamu stasira?» 

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