Catania è una poesia. I suoi colori, i suoi odori, le sue atmosfere sono ispirazione per chi ci nasce e per chi la vive. Catania è capace di imprimere versi indelebili, è una musa che ha ispirato artisti del calibro di Giovanni Verga, Luigi Capuana, Nino Martoglio, Mario Rapisardi, Vincenzo Bellini, Franco Battiato, Carmen Consoli e…Gianni Celeste.
Il vate, capostipite del movimento letterario “Neomelodico”, solca le scene artistiche marca Liotro ormai da decenni, da quando i suoi capolavori venivano trasmessi il pomeriggio su Tele D, poco prima dei film erotici, e registrati su musicassette pirata che finivano sulle bancarelle da Fera ‘o Luni. Le sue qualità liriche giustificano anche la licenza poetica della scelta del napoletano come lingua privilegiata, così come Dante per lo Stilnovo scelse il volgare e Manzoni l’italiano moderno. Cettu…ju no capisciu picchì unu ca è catanisi canta in napulitanu, ma, stando alla musica a palla che usciva dalle Uno turbo delle coppiette appartate a narrarsi d’amorosi sensi, evidentemente ha sempre avuto ragione lui.
E, a riprova che il bello non può rimanere nascosto agli occhi del mondo per troppo tempo, anche per Gianni Celeste, come per i più grandi poeti, i riconoscimenti hanno solcato le mode sino a diventare classici intramontabili. Tanto è vero che, recentemente, il suo immenso capolavoro “Tu comm’a mme” – conosciuto dai più come “Povero Gabbiano” (con la ohohohohohoh finale gorgogliata col caratteristico tremolizzo e lo sguardo perso nel vuoto) è tornato prepotentemente alla ribalta dopo ben trentaquattro anni di oblio, scalando le classifiche dei pezzi più condivisi in rete.
Ma cosa nascondono questi versi inarrivabili?
Qual è il segreto di tanto successo?
Per capirlo mi sono rivolto a Kevinni, presidente del più importante Gianni Celeste Fans Club catanese, che rivive nella canzone il dramma interiore della sua separazione da Sciantall.
Mi fermo un attimo. All’ascoltare questi versi, il viso di Kevinni è rigato da una lacrima: si rivede in piedi a Trizza, co telefunu ‘nde manu e la testa da gabbiano, mentre elabora l’addio e grida al vento «Ju ti amu mammoriri meomà!!!».
Lo struggente stato di abbandono nel quale allo stesso modo il pennuto ammuccatrigghi e il glabro mangiasangèli si trovano, fa accapponare la pelle: potrebbe riguardare ognuno di noi, come conseguenza di un veloce battito d’ali con il quale la nostra amata compagna (con la ahahahahah finale gorgogliata col caratteristico tremolizzo e lo sguardo perso nel vuoto ) ci potrebbe lasciare nella più profonda disperazione. La vita è questo, è il vento che ci allontana da ciò che amiamo, il rischio che tutto possa fuggirci via senza un perché e senza preavviso…come uno Sfera bordeaux (Spera boddò in slang originale ndr) ca n’arrobbunu sutta l’occhi.
Mi faccio coraggio e riprendo la discussione.
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