Semu tutti devoti tutti!

C’è poco da fare, in una rubrica come #accatania e in questo periodo dell’anno, non si può che parlare di Sant’Agata e dei suoi devoti, a cui la città è visceralmente legata da tempi addirittura antecedenti alla sua stessa nascita. Il suo culto origina probabilmente dall’evoluzione sincretica della devozione per Iside prima e Proserpina poi, ma, quale che sia il principio di questo legame, è indubbio comunque che esso sia il risultato dell’ancestrale bisogno che ha l’uomo di mettersi in contatto col trascendente e per questo va sempre e comunque rispettato.

Il mio personale omaggio a Sant’Aiutuzza lo farò provando a raccontare la festa così come la conoscevamo prima della pandemia, grondante di quella catanesità che l’ha resa un appuntamento unico al mondo.

Accatania, superato il capodanno, il tempo comincia a essere scandito tra il “prima i Sant’Aita” e il “dopu Sant’Aita”, cancellando di fatto gli astratti concetti di gennaio e febbraio. La febbre inizia a salire quando, già una ventina di giorni prima del periodo clou, le candelore abballunu strati strati con banda musicale e appassionati al seguito, sfidandosi in prove di forza accompagnate dalle urla estasiate degli ultrà che parteggiano per l’una o per l’altra: pisciari, pizzicagnoli, chianchieri, pastai e macari ciurari.

Che belle che sono! Splendide espressioni della devozione delle corporazioni cittadine e delle diverse correnti artistiche che si sono susseguite nel tempo, dal barocco al gotico, dal rococò al liberty. Quando sono tutte in fila le frasi sono le stesse da sempre: «Chista nica è chidda i Sant’Aita» quando si guarda quello che in realtà è il Cereo di Monsignor Ventimiglia. «Chista è a chiù pisanti» mentre si ammira la mole del Cereo dei Panettieri. «Talia chiddi co saccu ‘nda testa chi catenazzi do coddu hanu!» rimanendo esterrefatti dinanzi ai portatori alle stanghe.

Ma i veri e propri festeggiamenti iniziano il giorno 3 febbraio con l’offerta della cera da parte delle autorità cittadine, quando nesci a Carrozza do Senato, eterno spartiacque catanese tra ciò che avverrà e ciò che mai si realizzerà: «Quannu? Quannu passa a Carrozza do Senato!». La sera dello stesso giorno c’è lo spettacolo dei fuochi piromusicali in piazza Duomo, ca su si futtunatu arrinesci a virilli dai Quattro Canti, ma su troppu belli e su si catanisi non ti po peddiri.

Giorno 4 si comincia prestissimo, con la messa dell’Aurora. Già alle tre della notte la gente si accalca davanti ai cancelli della cattedrale, sprintando come Jacobs alle olimpiadi quando questi si aprono: cussi, pirati, sgambetti, pugni, sulu pi truvari un posto chiù vicino possibile…che poi, chissà perché, nel novantanove percento dei casi è sempre dietro a un cristiano di un metro e novanta o a una donna coi capelli alla Tina Turner.

Ladri, assassini, scippaturi, prufissuri unversitari, razzisti, teppisti, impiegati, notari, scinziati, diventano d’improvviso tutti religiosissimi, scoprendosi devoti, cristiani, pii e con le stigmate grondanti di sangue macari ca l’ultima volta ca sintenu na missa fu quannu si battezzanu. E così, tra le litanie, i canti e le grida che non avranno soluzione di continuità per i due giorni seguenti, “la Santa esce” verso le sette del mattino, cominciando il suo giro esterno della città. Per i catanesi il suo viso ride, felice di essere di nuovo tra la sua gente. Io non so se lo faccia davvero, ma certamente fa sorridere i cuori dei miei concittadini e questo mi basta.

È il giorno della processione più lunga e, per così dire, meno affollata: dalle parti della stazione e della fiera si riesce infatti nell’impresa di avvicinarsi alla Vara senza neanche rischiare di morire asfissiati. Il giro esterno si chiude alle prime luci dell’alba del giorno seguente, dopo aver visitato la periferia della vecchia Catania e dopo i bummi do Futtinu, ca di annu in annu su sempre chiù tardu.

Il giorno più importante è però il 5. Già dalla mattina la città sonnecchiante si veste con l’abito buono: il sontuoso barocco della via Etnea sembra essere tirato a lucido e l’odore di torrone inebria l’aria smaniosa di essere incendiata poco dopo dal fuoco dei ceri. La prima parte della giornata passa tra le messe e l’andare lento di chi sa che quella sera si tirerà fino a tardi.

L’uscita per il giro interno inizia verso le diciotto: in una piazza gremitissima Agata si tuffa nel cuore della sua Catania per riscaldarla nel profondo, nonostante sia pieno inverno. Dopu i bummi dell’uscita – ma picchì si sparunu sempre bummi? – il corteo dovrebbe muoversi risalendo la via Etnea…dovrebbe, ma comu avissa a fari? Ci sono almeno duecento persone per metro quadro e nuddu ca si voli spustari, tutti cu na cannila nde manu ca cill’hanu a dari pi fozza a Santaiutuzza. Avi vogghia u Capovara a sunari ca campanella! Gli unici squarci tra la folla li aprono i portatori degli enormi ceri votivi, ca su sempre addumati nonostante i divieti e su non stai attentu ta fanu finiri comu a Giovanna d’Arco.

E mentre il passo è quello di una lumaca che insegue un gambero, le grida dei devoti soffocano l’aria: «semu tutti devoti tutti!» «Cettu! Cettu!» o «Cittadini! Cittadini!», ognuno ha la sua versione che ritiene insindacabilmente corretta. E viri sti cristiani ca si cunsumunu le corde vocali, mentre l’amici i tenunu d’arreri picchi iddri non c’ha fanu mancu a stari a dritta, in una scena di devozione estrema che accomuna tutte le religioni del mondo.

Il Leitmotiv della prima parte della processione è l’immarcescibile domanda «unni arrivau a Santa?» e l’esclamazione che segue a qualunque risposta è sempre la stessa «miii ancora da è? Dumani s’arricogghi a manzionnu!»

Il corteo avanza lentissimo almeno sino al Borgo, tra picciriddi ca si mpicunu i manu co zuccuru filato, arrusti e mangia di canni i cavaddu, palluncini ca abbolunu ‘ndo cielu niuru, cera e segatura ‘nderra, calia, simenza, nuciddi e caramelle. Frattanto, davanti ai bagni di ogni bar si formano file di almeno due ore, dove si distinguono chiaramente mariti siddiati picchì i mugghieri na ficiunu a casa e picciriddi ca si tenunu stritti stritti…in tempi di Covid abbiamo nostalgia anche di questo…

Dopo i fuochi do Buggu il corteo scende velocemente fino all’Acchianata i Sangiuliano, dove le candelore si sono già sfidate precedentemente in prove di resistenza gladiatoria tra fischi e cori da stadio. La salita, un tempo fatta di corsa e nel buio della notte, ha perso negli anni il suo fascino a causa dell’orario sempre più tardo e soprattutto degli incidenti che nella sua storia l’hanno macchiata di sangue.

Per converso, il canto della Clarisse continua ancora a mettere i brividi. Nonostante il sole abbia sostituito da tempo le stelle nel far da spettatore muto a quei suoni angelici, che rimbalzano nel barocco abbacinante di via dei Crociferi come gocce di arcobaleno nel mare.

Il rientro avviene ormai come di consuetudine non prima delle undici del giorno 6, tra occhi assonnati, stanche schiene ricoperte di cera e migliaia di guanti, che salutano Sant’Aituzza spostando aliti di aria colmi di speranze per l’anno che verrà. Per i devoti, nel momento di congedarsi, il volto della statua sembra essere triste. Io non so se lo sia davvero, ma è sufficiente che regali alla gente di questa città due giorni interi di felicità per farmi credere che Sant’Aituzza sia davvero miraculusa…

Impostazioni privacy